Con le parole di Lévinas: «L’impossibilità di lacerare l’invadente, inevitabile e anonimo brusio dell’esistenza si manifesta, in modo particolare, in quei momenti in cui il sonno si sottrae al nostro appello. Si veglia quando non c’è più nulla da vegliare e malgrado non ci sia alcuna ragione per farlo. Il nudo fatto della presenza opprime: si è tenuti a essere, tenuti all’essere».
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Che cos’è l’ortoressia?
Il termine ortoressia (da orthos, giusto e orexis, appetito) è stato coniato nel 1997 da Steven Bratman, medico americano che inizialmente lo utilizzò per indicare una ossessione per le diete; nel tempo tale termine è stato sempre più usato per indicare un vero e proprio disturbo seppur non ancora codificato ufficialmente a livello internazionale.
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Che cos’è la dismorfofobia?
Prima descritto e documentato nel corso dell’ottocento dallo psichiatra italiano Enrico Morselli come dismorfofobia (dal greco antico dis-morphé = forma distorta e phobos = paura), ovvero paura di essere o divenire deforme e poi riconosciuto come disturbo dall’American Psychiatric Association nel 1987, il Disturbo di Dismorfismo Corporeo (DSM-5, 2014) è oggi un disturbo piuttosto comune ma generalmente poco individuato, caratterizzato da una dolorosa preoccupazione per un difetto dell’aspetto fisico che può essere supposto oppure di entità oggettivamente inferiore rispetto al vissuto soggettivo. Sebbene gli individui che ne soffrono abbiano perlopiù un aspetto normale, o solamente lievi difetti ritenuti dai più minimi e ininfluenti, essi sono preoccupati e angosciati dal fatto che il loro aspetto fisico sia imperfetto o difettoso.
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Uno dei cambiamenti più importanti che contraddistingue la società odierna è l’avvento di Internet: il suo ampio utilizzo viene qui osservato da una prospettiva clinica in quanto l’essere-in-rete apre a nuovi modi di fare esperienza, caratterizzati da un sovraccarico di esposizione a contenuti eterogenei, immediati ed autoreferenziali, in cui la dimensione intersoggettiva sembra scomparire. Una indagine del Censis, condotta nel 2012, mostra che un terzo degli intervistati utilizza la rete per reperire informazioni sanitarie. Se da un lato Internet ha il vantaggio di consentire l’accesso a un flusso continuo di informazioni e di aumentare le conoscenze personali, dall’altro lato però, come afferma Byung-Chul Han in un recente saggio in cui analizza la società contemporanea digitalizzata “da un certo punto in poi (…) l’informazione non è più informativa bensì deformativa, la comunicazione non è più comunicativa bensì cumulativa” (2017). Il web non può fornire informazioni precise, attendibili, coerenti e, soprattutto, individualizzanti, poiché i motori di ricerca sono sistemi automatici che funzionano secondo algoritmi che privilegiano le pagine web più ricercate o i risultati più rilevanti dal punto di vista statistico. In ambito clinico tutto questo si traduce con la facile acquisizione di informazioni di tipo sanitario o che riguardano tematiche legate alla salute e la trasformazione di esse in autodiagnosi cliniche. Questo significa che indisposizioni passeggere possono diventare in breve tempo gravi malattie esacerbando le preoccupazioni fino a portare l’individuo a sperimentare vere e proprie condizioni di paura e angoscia. Internet finisce così per filtrare la relazione con sé e con il mondo portando a un restringimento dell’orizzonte esperienziale, a una significativa chiusura di possibilità d’azione.
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Alcune pubblicazioni di Marta d’Albore:
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